Introduzione

Decidere di usare un neologismo[1] per il titolo di una tesi non è una novità, e usandolo non è la novità che si rincorre. Eppure è noto che nel destinatario, il neologismo, soprattutto se derivato da termini conosciuti, ha un potere più forte nella percezione, poiché obbliga alla riflessione, alla riconciliazione tra la parola scritta, il suono e il significato. Riporta in un lampo la scrittura all’oralità.

Sardignità…

Suonerà strano a molti, quasi stonato.

Ma si pensi all’orecchio quando, alle prese con un genere musicale sconosciuto, valuta con perplessità e solo dopo un ripetuto e variato ascolto riesce ad apprezzare o criticare.
E quando ad essere eseguita è una melodia nota, ma l’esecuzione avviene per mezzo di nuovi strumenti, c’è un momento in cui stentiamo a riconoscere l’originale.
Anche con un nuovo strumento o tecnica di comunicazione accade pressappoco lo stesso.
Che sia un termine mai sentito o un nuovo mezzo di comunicazione, li si comprende pienamente quando si è in grado di utilizzarli pubblicamente[2].
Per goderne e usufruirne bisogna prenderci dimestichezza.
Abituarsi all’uso.
La novità deriva spesso dal conosciuto: essa può ispirarci repulsione, dubbio, entusiasmo, ma raramente ci lascia impassibili.
Il primo passo è la curiosità.
Seguono poi il rifiuto o l’interesse, l’ignoranza o l’uso.
Abituarsi a considerare la dignità come valore guida di qualsiasi cultura e soprattutto di una minoritaria, come quella sarda, è come allenare la mente ad un nuovo modo di concepire la realtà; o meglio un nuovo modo di organizzarla e condividerla.
In sintesi: un nuovo modo di usarla.
Più che nuovo, forse, semplicemente sconosciuto, o quasi.
Molte culture minoritarie e organizzazioni per la tutela della ricchezza culturale hanno fatto e stanno facendo appello al valore della dignità per accrescere l’autocritica e l’autostima dei propri componenti e per la tutela, l’innovazione, il confronto e l’intreccio dei patrimoni cultuali umani.
Per farlo si stanno già da tempo appoggiando alle nuove tecnologie di comunicazione.
I media di comunicazione, registrazione e trasmissione, sia tradizionali che analogici, hanno trovato nelle memorie virtuali degli hard-disk, nei supporti di registrazione digitale e nelle reti integrate fisiche e immateriali[3], non dei sostituti ma dei compagni; con una grande differenza: la possibilità di integrazione e interazione, oltre che una maggiore accessibilità, un più largo raggio d’azione in meno tempo.
Oggi con un computer collegato alla rete si può accedere a un numero di dati in continua crescita. Con lo stesso mezzo si possono pubblicare (creare, memorizzare e arricchire) un numero di dati per la cui diffusione, fino a pochi decenni fa, occorrevano forti investimenti di mezzi, di tempo e di denaro che solo in pochi potevano permettersi.
Per quanto il computer e le reti integrate non siano ancora facilmente accessibili soprattutto economicamente a molte fasce della popolazione in tutti i paesi del mondo, è evidente che rispetto ai “nuovi media del passato”( quali sono stati ai loro tempi la scrittura, la stampa, la radio eccetera) mai un “nuovo media” è stato altrettanto fruibile e usabile in maniera così estesa e in così breve tempo al di fuori dei poteri ufficiali e dominanti, ossia le classi dirigenti, mercantili o prettamente intellettuali.
I primi entusiasmi scaturiti per le possibilità di una migliore distribuzione della conoscenza e delle informazioni all’interno delle società si sono dovuti però ridimensionare non solo a causa dei costi –troppo spesso elitari- delle nuove tecnologie ma anche per la difficoltà legata ai processi d’apprendimento e aggiornamento ad esse legate ed indispensabili per un utilizzo consapevole dei nuovi media.
In effetti i nuovi media possono contribuire all’organizzazione e la creazione di visioni interdipendenti dal basso solo a patto di una loro conoscenza estesa e legittimata da un uso collettivo, pubblico e polifonico. Senza questi presupposti, l’uso rimane elitario (sia istituzionale che privato) intensificando di fatto l’omogeneizzazione culturale tramite pochi e mirati punti di vista dall’alto[4];
Quello che in questa sede ci interessa trattare sono i cambiamenti messi in atto dall’evoluzione dei Media nei processi di auto-documentazione, ossia la pratica per cui le attività documentative non avvengono attraverso selezioni esterne ma all’interno degli stessi contesti interessati dai soggetti delle comunicazioni in un interscambio dal basso.
In questa trattazione si vedranno sinteticamente le dinamiche che hanno interessato nel corso dei secoli le pratiche d’auto-documentazione nel generale contesto delle isole di Sardegna tenendo presente che l’autodocumentazione può interessare sia la scelta che la produzione di informazioni mediatizzate e può coinvolgere diverse comunità della società umana, dai gruppi d’interesse alle minoranze linguistiche, dalle categorie di lavoratori ai raggruppamenti associativi.
Il punto di riflessione saranno le dinamiche di autodocumentazione (e quindi quelle di auto-rappresentazione) inerenti la cultura sarda, intesa come cultura aperta sviluppatasi in Sardegna attraverso i secoli, influenzata dagli scambi umani con l’interno e l’esterno e modellata dall’uso dei vari mezzi di comunicazione.
Secondo le teorie dell’interazionismo simbolico[5] il linguaggio svolge un ruolo cruciale nello sviluppo e nella conservazione delle società nonché nella strutturazione delle attività mentali individuali.
Di fatto, i media rappresentano una parte centrale dei processi comunicativi umani, e di conseguenza influenzano le costruzioni di significato soggettive e condivise dei soggetti singoli e collettivi.
Questo trova riscontro nei cambiamenti che ogni nuovo media apportò nelle società e negli individui, in base anche al fatto che esso fosse o usato liberamente (e per incentivare la creatività e la crescita culturale) o proibito e controllato da un centro di potere (e dunque anche usato per la modificazione e l’occultamento delle produzioni culturali non accette).
Prendendo il contesto culturale della Sardegna e delle sue isole, si può notare la ricorrenza dell’uso delle conquiste tecnologiche comunicative da parte delle popolazioni immigranti e colonizzanti per l’importazione o imposizione a diversi livelli di una qualche caratteristica culturale.
La conoscenza, il controllo e l’uso di un nuovo medium di comunicazione portava a introdurre dei cambiamenti che potevano interessare la lingua, la religione, la medicina, la legislazione, l’educazione, l’informazione e addirittura la percezione di se stessi e del mondo.
Queste mutazioni culturali non sono mai avvenute in maniera totale e improvvisa, ma sono state frutto di diverse mescolanze di scelta e costrizione, resistenza e accettazione, ribellione e rinuncia, abbandono e ritorno.
Focalizzandoci nell’ultimo millennio, con il crollo dell’impero di Bisanzio, per la Sardegna inizia quella che sarà poi denominata Esperienza Giudicale, un’epoca durata oltre quattrocento anni[6], nella quale gli abitanti dei territori sardi si raccolsero in quattro regni indipendenti e sovrani, con diversificati contatti e rapporti con l’estero. Furono degli anni densi d’equilibri e di contrasti e furono anche gli anni in cui le lingue Volgari Sarde scritte si emanciparono dal latino e l’uso della scrittura -e della lettura- cominciò a diffondersi risolutamente nei contesti legislativi e politici indigeni (e più timidamente tra la popolazione).
Per quanto nei successivi sei secoli[7] la Sardegna abbia convissuto con autorità extraisolane che hanno spesso imposto la loro autorità[8], si può affermare indiscutibilmente che i sardi di tutte le epoche e tutte le origini hanno conservato, rinnovato e prodotto degne peculiarità espressive e culturali.
Un patrimonio enciclopedico e multietnico che nell’età della convergenza tecnologica e dell’oralità di ritorno (ossia quella “dell’attuale cultura tecnologica avanzata[9]) può essere rappresentato degnamente, comunicato adeguatamente ed equamente inserito nel panorama delle conoscenze umane senza le limitanti barriere statali.
Sorpassata l’era delle comunicazioni di massa intesa come il periodo di massima influenza sulla popolazione esercitata da media quali la stampa, la radio e la televisione di massa (che facevano dell’allocuzione[10] il modello di comunicazione privilegiata), si sta faticosamente entrando in quella che potremo semplicisticamente chiamare l’era dei media intrecciati, nella quale i media del passato continuano ad esistere come mezzi separati e contemporaneamente convergono nei PC, nei palmari, nei cellulari e tutti quei singoli medium in cui si ha una combinazione di allocuzione, consultazione, registrazione e conversazione.
Questo cambiamento, di per sé né positivo, né negativo (e neanche neutrale[11]), avrà delle conseguenze sulla società in base all’uso che gli individui ne faranno, anche se è già evidente che nessuno possa permettersi di ignorare “una rivoluzione che porta con sé conseguenze culturali, sociali, politiche, economiche di immenso rilievo[12]” e che ha cambiato radicalmente il modo di produrre, elaborare, raccogliere, scambiare informazioni[13].
Affinché le differenze identitarie che contraddistinguono il genere umano divengano opportunità di confronto e risorse per uno sviluppo sostenibile -piuttosto che lati da smussare e caratteristiche da convertire ai modelli dominanti- le nuove tecnologie di comunicazione permettono in maniera consapevole ciò che fino a tempi recenti avveniva per molte culture solo in maniera per così dire “inconscia”.
Infatti nonostante da sempre l’essere umano abbia creato delle autorappresentazioni di sé stesso e del suo punto di vista sul cosmo e la vita è solo recentemente che si và affermando la consapevolezza del diritto di ogni esperienza locale a raccontarsi in prima persona[14].

In un presente sempre più affollato di voci “che non vogliono più essere riportate/museificate, e che al contrario contestano la storia dell’Occidente, l’idea stessa di modernità come specifica esperienza occidentale, e contribuiscono a spostarla, a decentrarla” [15] si rende sempre più necessario anche nel contesto Occidentale l’osservazione delle nostre culture dall’interno per la riacquisizione di quella dialogicità e polifonia in cui tutti sono in qualche misura implicati.
Il termine rappresentazione ha una doppia valenza: a)quello di “processo mediante il quale percezioni e idee vengono organizzate nella conoscenza” b) quello di “contenuto del processo rappresentativo”[16]. Con l’aggiunta del prefisso auto-[17] esso si rivolge a quelle pratiche e quei contenuti per cui e con cui i soggetti costruiscono da sé la propria rappresentazione.
Così, nonostante la cattiva luce che i nazionalismi, i processi d’accentramento Statale e l’informazione dall’alto hanno gettato sui concetti d’identità ed etnia, essi possono essere rivalutati anche attraverso il giornalismo di autorappresentazione, dove i committenti delle informazioni divulgate e trasmesse sono gli stessi soggetti interessati. Questa forma di giornalismo, a metà tra testimonianza e interpretazione partecipante, impone la riconsiderazione di numerose informazioni che sono state create dall’Altro, e diffuse dall’Alto.
La peculiarità delle produzioni d’autorappresentazione “consiste nel fatto che esse sono rappresentazioni etnograficamente ‘proprie’: hanno come fine la rifondazione dell’identità e dei diritti dei soggetti rappresentati, e contemporaneamente comunicati, attraverso la ridefinizione in rapporto ad altre visioni del mondo[18].
Tutto ciò avviene col presupposto della dignità umana, che come tale, non si nega a nessun popolo e a nessun popolo dovrebbe mancare.
In Sardegna un’autorappresentazione della propria identità, un’autodocumentazione della propria realtà culturale, e un’autoresponsabilizzazione del proprio ruolo politico può essere riassunta nel concetto di Sardignità. Questo concetto, nella sua genericità, rimarrà per così dire nello sfondo di questa trattazione, come punto di partenza delle riflessioni che tenderanno a osservare le dinamiche comunicative inerenti la cultura sarda.
Intendendo per cultura “l’ambito della vita in cui gli esseri umani costruiscono significati mediante pratiche di rappresentazioni simboliche[19]”, Sardignità vuole essere il concetto aperto per cui al di fuori di concezioni politiche abusate
(quali il Sardismo, il Patriottismo o il Nazionalismo) o più generali (quali il localismo, il regionalismo o il campanilismo) si definisca il ruolo interdipendente che la cultura sarda possa e debba avere nel contesto globale in cui le differenze devono mostrarsi “reattive, consapevoli, continuamente reinventate e soprattutto indipendenti dal fattore cui immediatamente le si riconduceva, la distanza”[20].
D'altronde, quello in cui stiamo entrando è il pianeta della Grande Occasione. “Un'occasione incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio se stessi”.[21]
Senza lasciarsi dunque prendere dagli scetticismi o gli entusiasmi sulle nuove possibilità mediatiche quello che innanzi tutto bisogna fare da un punto di vista culturale è imparare a sfruttarne le potenzialità, sia per la creazione e diffusione del proprio punto di vista che per l’integrazione con quello altrui.
Ne consegue che slanci di xenofobia, intolleranza e discriminazione, portati da diversi sociologi e antropologi come rischi delle spinte locali, svaniscono con il presupposto della diversità come ricchezza e della dignità come base dell’esistenza.
Un essere umano può rispettabilmente sentirsi tale solo quando cosciente della propria dignità. E’ tristemente noto il fatto che la massima crudeltà inflitta ad una persona sia quella di privarla della dignità umana. Ma poco si riflette sulla privazione della dignità ad un popolo e sui risvolti che questo possa avere anche a livello individuale.
Delegittimare la dignità di un popolo significa privarlo degli strumenti necessari per costruire il proprio modello sociale, culturale ed economico. Significa allontanarlo dalla memoria del proprio passato, e di conseguenza dal suo campo d’azione nel presente e dalle sue aspettative sul futuro.
Affinché una comunità si riappropri dei propri diritti e della propria identità rimodellandoli secondo la propria storia passata e le proprie necessità di sviluppo sostenibile per il futuro, è necessario che essa si appropri prima di tutto della sua voce nel presente attraverso la costruzione collettiva di un’autorappresentazione fondata sull’autostima e l’autocritica.
Fortunatamente grazie all’espandersi dell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa, grazie ai new media e ai cosiddetti small media -ovvero quelle produzioni audiovisive, estranee ai sistemi ufficiali di produzione videocinematografica di grandi dimensioni[22] - è più facile che anche le culture finora debolmente autodocumentate o inadeguatamente rappresentate creino da sole le prospettive per un futuro più solidale, equo e all’insegna della diversità, senza limitarsi a un confronto locale o nazionale.
Anche se questo non sarà sufficiente per rovesciare le posizioni subalterne di molte minoranze nell’ambito della politica[23], non c’è dubbio che l’autorappresentazione con la conseguente autoresponsabilizzazione sia il primo passo per lo sviluppo dell’ancora troppo intangibile Democrazia Partecipativa e di una globalizzazione non solo economico-finanziaria.
Il fatto che una minoranza storica come quella dei sardi non sia ancora riuscita ad organizzare la propria società secondo le proprie peculiarità (e affinché sia l’abitante che il viaggiatore possano goderne a pieno la ricchezza e la semplicità) ha indubbie origini storiche, numeriche ma soprattutto ragioni mediatiche.
Mi vengono in mente le dinamiche del sequestro di persona[24]. Un individuo, privato della sua libertà e obbligato a relazionarsi solo con i suoi sequestratori, a lungo andare, perde non solo la sua dignità, ma anche la capacità di comunicare e di conseguenza di rapportarsi con le altre persone, con se stesso e con la realtà. Ottenuta o conquistata la libertà, solo dopo un forte sforzo interiore e solidarietà esterna, la persona riesce ad accettare decorosamente la traumatica esperienza e a continuare la propria vita con spirito costruttivo, creativo, propositivo.
Con questa tesi non si pretende raggiungere nessuno scopo originale, ma solo fornire un quadro di riferimento per uno sviluppo degno e dignitoso dei processi di autodocumentazione e autorappresentazione in Sardegna ora che i nuovi media sono potenzialmente accessibili a tutti, se non in senso individuale almeno in senso collettivo e comunitario, e che l’oralità, la scrittura, la stampa, le trasmissioni radiofoniche e televisive possono viaggiare senza –o quasi- limitazioni legislative attraverso le frequenze digitali.
La speranza è che la Sardegna, per secoli delegittimata e invalidata culturalmente, conquistata politicamente e sfruttata economicamente, abbia oggi, attraverso i suoi abitanti e i suoi amanti, la virtù e la solidarietà necessarie a godere dei vantaggi dei nuovi media per la costruzione polifonica di un più aperto e appropriato concetto d’identità.
Affinché soprattutto i giovani sappiano che non devono iniziare da zero, e anzi, possono arrampicarsi nelle spalle di tanti giganti e affinché la legge si costruisca in base alle esigenze delle persone e non agli interessi governativi, partitici o del mercato. E, certo, anche affinché l’immagine odierna di una Sardegna come ovvio luogo di vacanza marittima estiva e mero punto strategico militare la restante parte dell’anno, si ridimensionino su un modello di sviluppo sostenibile in base ai suoi abitanti e alle loro culture, al loro grande onore e alla loro decorosa umiltà.

________________________________

[1] E’ da segnalare che il termine Sardignità è già stato utilizzato da Gavino Maieli, (cfr. www.monserratonews.it ), giornalista e poeta nonché ex-direttore responsabile della rivista NUR (aipsa Edizioni, Cagliari, pubblicazione bimestrale culturale bilingue fondata nel 2001 e sospesa nel 2005, cfr. www.editorisardi.it, www.aipsa.com )

[2] È Wittgenstein a sostenerlo nelle sue Philosophische Untersuchungen -Ricerche Filosofiche- nel quale, a proposito del linguaggio, spiega il fondamentale ruolo dell’uso (non privato né individuale) nel processo della comprensione. (cfr. Wittgenstein L. ,Ricerche Filosofiche,Philosophische Untersuchungen, Einaudi, Torino 1999.

[3] Create dalla sovrapposizione di rame, fibra ottica, satellite e wireless.

[4] Crf. Dijk J.V., Sociologia dei nuovi media, Il mulino, Bologna 2002.

[5] Cfr. M. De Fleur, S. Ball-Rokeach, Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, Il mulino, 1995,(cap.1.2.2 L’interazionismo simbolico p 50-52)

[6] Iniziata a cavallo tra il IX e il X secolo e conclusa ufficialmente tra 17 agosto 1420 ,(data della trasformazione del Giudicato d’Arborea in Marchesato d’Oristano) e il 19 maggio 1478 (data dell’ ultima rivolta giudicale nei campi di Macomer).

[7]Il 30 giugno 2009 ricorrerà il seicentesimo anniversario della Battaglia di Sanluri (sa Battalla de Seddori), dove le truppe Sardo-Giudicali furono sconfitte da quelle Catalane-Aragonesi. Avvenimento che segnò “l’inizio della fine” dell’esperienza Giudicale e il vero avvio del dominio straniero (Aragonese prima, spagnolo, austriaco, Savoiardo e italiano poi) in Sardegna. Infatti, nonostante più di un secolo prima -il 4 Aprile del 1297-, Papa Bonifacio VIII istituì un Regnum Sardiniae et Corsica concedendolo al Re Giacomo II D'Aragona, essa non può storicamente essere considerata la fine dell’Esperienza Giudicale anche perchè il pontefice esercitò un potere che non possedeva, ( e che era stato concesso alla Chiesa di Roma dal " Costitutum Costantini", che poi verrà dimostrato essere un falso storico.) cfr. Atzeni S., Preistoria e Storia di Sardegna, E-bock pdf, (178 p)., reperibile on line su www.aamolasardegna.it, A.A.V.V., Brigaglia M., a cura di, Storia della Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1998.

[8]In un ottica semplificativa si ricordi che l’inizio del Regno di Spagna viene datato con approssimazione nel 1475, anno dell’unione della Corona di Aragona con il Regno di Castiglia. Esso ha proseguito fino all’occupazione asburgica dell’Impero di Carlo VI (1708-1717), seguiti poi da una rioccupazione Spagnola (1717- 1720), dal Regno Savoiardo (02 settembre 1720-02 giugno 1946) e dalla dittatura Fascista (1925-1945). Seguono poi i vari Governi statali della Repubblica Italiana, quelli Comunitari relativi alle politiche dell’Unione Europea e quelli locali (Regione, Province e Comuni).

[9] Cfr. Ong W.J., Oralità e scrittura, le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 2006., p.29.

[10] “La distribuzione simultanea a un pubblico di unità locali da parte di un centro che funge da sorgente dell’informazione e da centrale abilitata a decidere sugli argomenti da trattare, sul tempo e la velocità” cfr. Bordewijk J., Van Kaam B., Allocutie, Enkele gedachten over communicatievrijheid in een bekabeld land, Bosch & Keunig, Baarn, 1982, citato in J.V. Dijk 2002 (p.27).

[11] “La tecnologia non è né buona né cattiva. E non è neppure neutrale” Cfr. Kranzberg M. “The information age: evolution or revolution?”, in Guile B.R. (a cura di), Information technologies and social transformation, National Academy of Engineering, Washington (1985).

[12] Ciotti F., Roncaglia G., Il mondo Digitale, Ed. Laterza, Roma-Bari 2003.

[13] Ibidem. (p. V).

[14] Said, 1991;Clifford 1993;Lumba 2000; citati in Dal Lago A., De Biasi R., (a cura di) Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Roma-Bari,2002

[15] Gilrey 1993;Chakrabarty 2000; citati in ibidem.

[16] A.A.V.V. a cura di Balma Tivola C., Visioni del mondo. Rappresentazioni dell’altro, autodocumentazione di minoranze, Produzioni Collaborative, Udine,Edizioni Goliardiche, 2005.(p.10)

[17] Dal greco autòs, <>.

[18] Dalla tesi di laurea di Marino Davide L’APPROPRIAZIONE DEL DISPOSITIVO FOTOGRAFICO.AUTORAPPRESENTAZIONE DEL LAVORO MINORILE PER UN’ETNOGRAFIA DEI DIRITTI DELL’INFANZIA (Facoltà di Scienze Politiche, corso di laurea in Media e Giornalismo, dell’Università di Firenze, anno accademico 2006/2007).

[19] Tomlinson J. Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, Feltrinelli, Milano 2001 (p.31), citato in Sorrentino C., Il giornalismo. Cos'è e come funziona, Carocci, Roma, 2002 (p.24);

[20] Clifford 1993; citato in Dal Lago 2002, (p.31).

[21] Ryszaed Kapuściński, Conferenze Viennesi 2004, in TEN INNY, ( traduzione It. Verdini V.,L’altro, Feltrinelli, Milano, 2007.

[22] Cfr. Balma Tivola C., 2005, (op.cit),

[23] Ibidem (P.171).

[24] Ma anche e soprattutto quelle dell’internamento nei campi di concentramento, nelle carceri e negli ospedali psichiatrici.