3. Una questione di tempi

3. Capitolo; Sardignità: Una questione di tempi.

3.1. I tempi cambiano, l’oralità resiste.
3.2. I tempi cambiano, l’oralità rimane.
3.3. I tempi cambiano, l’oralità è di massa.
3.4. I tempi cambiano, l’oralità ritorna.



3.1. I tempi cambiano, l’oralità resiste.



Walter J. Ong[1] designa col termine “oralità primaria” quella di una cultura del tutto ignara della scrittura e della stampa.
Senza addentrarci a considerare il livello di conoscenza della scrittura nella Sardegna nuragica[2], fenicia, punica, romana e bizantina, è sufficiente considerare la precoce emancipazione[3] dall’uso del latino che diverse varianti di sardo[4] hanno avuto nell’Età Giudicale per capire che non si può parlare di “oralità primaria” rispetto alla cultura sarda[5].
Studiando le vicende relative alla diffusione della cultura scritta nell’epoca in cui la Sardegna fu una regione sotto l’occupazione militare e la giurisdizione della corona d’Aragona e del Regno di Spagna, è evidente che la scrittura stesse prendendo piede e la produzione e la circolazione del libro avessero ormai assunto dimensioni ragguardevoli, grazie non solo all’invenzione della stampa, ma anche all’impiego sempre più massiccio del volgare e del bilinguismo oltre che della lettura pubblica e collettiva.
Non potendo trattare in questa sede tutte le vicende relative alla cultura di questo periodo, è per noi sufficiente notare come esso sia segnato sia da aspetti positivi[6] che negativi[7]. È infatti nel cosiddetto “periodo spagnolo” che si hanno eventi contrastanti quali: a) L’introduzione dell’Inquisizione (1492) e la feroce repressione culturale a sfondo Cristiano –ma con ovvi intenti politici- contro gli autori e la diffusione dei libri –non solo quelli considerati eretici[8]- e contro la trasmissione orale delle conoscenze indigene soprattutto a opera delle donne[9]; b) la nascita nel 1562 e 1564 dei Collegi gesuitici di Sassari e Cagliari (e delle rispettive Università nel 1620 e 1634) e la diffusione della stampa, tecnologia che venne introdotta in Sardegna nel 1566 da Nicolò Canelles - di Iglesias (Ca) - che impianta la prima tipografia sarda a Cagliari seguita poi da quella del sassarese Antonio Canopolo, che la fonda nel 1616 nella sua città. Si evince da questa breve analisi che in Sardegna, il grande peso investito dall’oralità -e dagli altri metodi di trasmissione extra-chirografica e tipografica- per tutto il Medio Evo e l’Età Moderna derivi dalla difficoltà di pubblicazione e diffusione dei testi, e dal controllo politico e culturale avvenuto a opera delle classi dominanti più che dalla estraneità alla scrittura e alla stampa.
È ovvio che, in epoche di strette ispezioni, l’oralità avesse il gran vantaggio di non lasciare prove agli inquisitori, pur permettendo di produrre, elaborare, raccogliere, scambiare informazioni in modo efficace ed autorappresentativo.


3.2. I tempi cambiano, l’oralità rimane.

Per quanto riguarda la stampa, come accennato fu introdotta nell’isola nel 1566, ma il vero e proprio processo d’interiorizzazione in Sardegna iniziò sotto gli anni di dominazione Sabauda. Anche in questa epoca, in ogni caso, è l’oralità a giocare il ruolo primario nella trasmissione e diffusione della cultura e delle informazioni dal basso. Infatti, nonostante la maggior circolazione dei testi, la riapertura delle Università – chiuse negli ultimi tempi della dominazione spagnola- , la fondazione nel 1795 del Giornale di Sardegna - la prima esperienza giornalistica nell’isola[10]- e la continua crescita delle produzioni scritte e stampate si nota un esponenziale aumento degli intenti ideologici e politici legati alla diffusione della cultura e dell’informazione scritta. In sintesi si può affermare che mentre la classe dominante spagnola controllava le tipografie e di fatto limitava ogni tipo di circolazione dei testi scritti e stampati, quella sabauda cercava “solo” di indirizzarne i contenuti e il punto di vista a suo vantaggio.
Mediante l’uso della scrittura e della stampa, la classe dominante espresse l’intento di trasmettere valori, ideali, convinzioni politiche, piuttosto che diffondere conoscenze, divulgare notizie” che potessero “ costituire risorse utili alla partecipazione sociale[11].
Questi intenti furono esplicitati in Sardegna dalla sostituzione dello spagnolo e del sardo[12] con la lingua Italiana in tutti i contesti pubblici e ufficiali, il suo insegnamento e la sua imposizione nelle scuole come unica lingua utilizzabile[13].
La mancata emancipazione del giornalismo sardo –così come quello italiano- dalla politica statale risedette soprattutto nei limiti del mercato potenziale[14], dovuto sia alla permanenza di forti sacche di analfabetismo, che alla quasi totale assenza di un finanziamento economico stabile ed efficiente.
Ciò nonostante non è appropriato parlare in Sardegna di limitatezza di una tradizione sarda autorappresentativa giornalistica.
È veritiero affermare che la percentuale di alfabetizzati era minima fino almeno alla metà del XX secolo, e in più c’è da notare che tra coloro che avevano appreso a leggere e scrivere, non tutti avevano padronanza della lingua italiana, mentre il giornalismo sardo sin dagli esordi si rivolgeva proprio agli alfabetizzati italiofoni. Nonostante si possa parlare solo raramente nelle testate sarde di vera e propria autorappresentazione è anche vero che in Sardegna si diffusero notevolmente quelli che generalmente vengono chiamati “fogli volanti”: singoli fogli stampati che contenevano, sotto forma di poesia e canzoni in lingua sarda, fatti di cronaca o di importanza sociale. Questi fogli hanno rappresentato il medium più accessibile di comunicazione e informazione al di fuori dei media orali, artistici e rituali d’allocuzione, consultazione, registrazione e conversazione.
Il loro prezzo, infatti, era molto più economico dei giornali[15], l’impiego della lingua locale permetteva una fruizione popolare e l’uso della rima (la caratteristica ottava serrada) li rendeva più gradevolmente recitabili e cantabili in pubblico, oltre che più facilmente memorizzabili e ripetibili.
I fogli volanti rappresentano uno dei primi esempi scritti d’autodocumentazione attiva scritta in campo giornalistico, in quanto la produzione di contenuti avveniva spesso da parte di persone che conoscevano direttamente i soggetti interessati dai fatti narrati.
Pur se scritte, queste “cronache commentate”[16] danno la testimonianza di un’antica tradizione orale di selezione, interpretazione ed esposizione improvvisata, di cui esse sono una testimonianza più che un evoluzione. Infatti è noto che la loro elaborazione avvenisse spesso ad opera di autori completamente analfabeti, i quali affidavano le loro creazioni fondamentalmente alle memorie collettive (attraverso la recitazione e le gare tra poeti improvvisatori) e solo successivamente e occasionalmente alla scrittura e alla stampa, soprattutto per opera di mediatori. La scrittura infatti avveniva più con intenti economici che divulgativi. I fogli volanti si diffusero soprattutto dalla seconda metà dell’ottocento fino all’avvento del fascismo, anche se continuarono a circolare fino alla prima metà del ventesimo secolo.
Come noto, infatti, le imposizioni del ventennio fascista non si limitarono alle imposizioni linguistiche ma interessarono anche la censura dei contenuti.
Ne deriva che l’autodocumentazione (sia attiva che passiva[17]) dei sardi continuò ad aggrapparsi ai media orali, in quanto, ancora una volta, scrittura e stampa non consentivano l’autorappresentazione.
Questo perché le pratiche censorie seguono una logica che, come ricorda Sorrentino (1995) si contrappose rigidamente “alla concezione di una stampa che permetta agli individui di farsi promotori della propria emancipazione, attraverso la partecipazione popolare e l’enfatizzazione dei caratteri della vita quotidiana e del ruolo attivo in essa svolta dai cittadini” [18].

Fino a tempi davvero recenti è dunque giustificato parlare della cultura sarda come una cultura prevalentemente orale, in quanto la scrittura si può definire come completamente interiorizzata[19] dalla maggioranza della popolazione solo negli ultimi cinquant'anni.

3.3. I tempi cambiano, l’oralità è di massa.

Negli anni del secondo dopo guerra, oltre al persistere di una forte caratterizzazione politica nel giornalismo, si è assistito ad un’accentuazione dell’intento pedagogico nei media di comunicazione di massa (stampa e televisione in primis) che vennero usati dai Governi di turno e dai centri di potere per diffondere le proprie visioni e prospettive. Gli avvenimenti dagli anni cinquanta in poi sono fondamentali per capire la configurazione del panorama mediatico contemporaneo, nel quale la partecipazione e l’autorappresentazione risultano ancora marginali rispetto ai dettami della politica e del mercato[20]. In quegli anni la comunicazione diventa sempre più "di massa", grazie alla portata dell’oralità sfruttata da Radio e Televisioni e la crescita del livello di alfabetizzazione che porta i quotidiani a raggiungere target sempre più estesi.
Per quanto riguarda la scrittura, il sardo stenta a trovare uno standard e in Sardegna si ha una vera esplosione delle produzioni chirografiche e tipografiche in lingua italiana. Pubblicazioni di ogni genere arrivano nelle librerie e nelle edicole: quotidiani, riviste, periodici, saggi, romanzi, raccolte di poesie. Mentre i sistemi di potere si accingono a sfruttare i mezzi di comunicazione di massa, i sardi interiorizzano la scrittura e la arricchiscono con le loro produzioni[21].
All’uso dell’Italiano in sostituzione del sardo come lingua di produzione letteraria non corrisponde un netto cambio culturale. Gli intellettuali sardi, pur relegando parzialmente il sardo al linguaggio quotidiano, non si discostano da quello che possiamo definire insieme di simbologia e significati che li lega alla Sardegna[22]. Così, se anche l’italianizzazione di massa[23] porta il livello di sardofonia alle percentuali più basse della storia, non si può affermare che essa abbia portato anche ad una scomparsa della produzione culturale sarda. D’altronde il monolinguismo sardo non era mai esistito come fenomeno collettivo[24], e se anche la lingua sarda ha sempre avuto diffusioni maggiori delle altre lingue adoperate in Sardegna per la produzione culturale, proprio il suo parziale abbandono portò ad una maggiore consapevolezza in primo luogo dei legami extralinguistici che sussistevano tra gli individui e la loro cultura[25], e in secondo luogo della gravità della possibile perdita.
Quando l’essere italiofoni in Sardegna -come in tutte le altre regioni italiane- divenne segno di modernità e di istruzione, ci fu chi parlò di Progresso e chi di Genocidio Culturale. Questo processo, in effetti, avvenne in un periodo di boom economico, nel quale però tutte le culture particolaristiche e pluralistiche italiane[26] furono schiacciate –più che assorbite- da una  "nuova
cultura" prodotta dai nuovi "modi di produzione" [27] e di consumo.
In ogni modo, quello che ci preoccupa è vedere se, nonostante il sopraccitato cambio linguistico, si siano continuati a perpetuare processi di autorappresentazione e dunque autodocumentazione dal basso.
Come precedentemente accennato, intorno agli anni sessanta la scrittura e la stampa, per quanto in lingua italiana, stavano finalmente raggiungendo diffusioni popolari e la Sardegna è brevemente passata ad essere, da una delle regioni con maggior numero di analfabeti, ad una di quelle con i più alti indici percentuali di lettura.

L’autorappresentazione scritta però, tende ancora oggi ad essere relegata alla letteratura e risulta abbastanza scarsa nelle testate sarde, dove gli interessi economici e governativi continuarono a crescere e predominare. I “rifugi” oggi come ieri sono allora i periodici culturali, specialistici, politici e letterari mentre l’oralità (con la poesia, le canzoni, le preghiere) continua il proprio ruolo soprattutto in ambiti familiari e più raramente –specialmente nelle feste, nelle arti, nei rituali e nelle contestazioni - in ambito sociale, acquistando comunque uditori sempre più di nicchia.
Per quanto riguarda i media radiofonici e televisivi, in Sardegna è luogo comune, pensare che i sardi non siano semplicemente stati in grado di appropriarsi di questi mezzi di comunicazione di massa. Ciò è chiaramente un indice di come si disconosca la grande spinta collettiva ad usare quei mezzi che finalmente permettevano l’espressione, la divulgazione, l’intrattenimento e l’informazione in larga scala tramite oralità.
E’ utile ricordare che nel contesto Italiano, in riferimento alla diffusione del media televisivo, in generale si parla di tre periodi[28]: il periodo del “palinsesto pedagogizzante”[29], il periodo della “televisione dei partiti” e quindi quello del “sistema misto”.
 Tralasciando gli anni in cui la RAI rappresentava l’unica emittente legale ed era caratterizzata dalla forte matrice cattolico-democristiana (che sfociò negli anni successivi in una vera e propria censura [30] dei contenuti e delle forme), si arriva con la Riforma RAI del 1975 a quella che sarà definita la RAI dei partiti[31], in cui le molteplici richieste di pluralismo e decentramento vennero interpretate con una banale lottizzazione (con il quale ogni partito che componeva la maggioranza di governo, ed anche ad alcuni partiti dell’opposizione, spettavano fette del potere RAI in proporzione alla loro rappresentanza politica[32]) e la creazione delle sedi Regionali (potenziate solo quattro anni più tardi con la nascita della Terza Rete –RAI TRE-).
 In quegli anni non sono pochi i tentativi d’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione di massa da parte di singoli, piccoli gruppi politici, associazioni culturali ecc., che, grazie alla maggiore disponibilità di apparecchiature tecniche e costi sostanzialmente abbordabili, furono in grado di aprire una loro stazione radiofonica o televisiva.
 Esplose il fenomeno delle Radio Libere, e Ortoleva fa notare come nel febbraio del 1976 si contino 177 impianti radio e 32 impianti televisivi privati e di questi ben 133 erano stati denunciati[33]. Le nuove emittenti erano infatti fuori legge sino alla sentenza della Corte Costituzionale n.202 del 1976[34] che, per quanto confermi il monopolio RAI delle trasmissioni su tutto il territorio nazionale, permette la trasmissione privata in ambito locale.
 In Sardegna, questa possibilità venne rapidamente sfruttata. L’accessibilità delle tecnologie di trasmissione e le esperienze collettive passate, prima tra tutte quella di Radio Sardegna[35], che cominciò le trasmissioni già nel 1943, diedero un nuovo impulso alla già solida propensione delle comunità sarde ai mezzi orali.

Poi, la crescita d’interiorizzazione dei mezzi di comunicazione di massa subì poi un sostanziale arresto, anche se non certo per mancanze d’iniziativa. Quella che avvenne a partire dagli anni novanta fu una celata ma insistente censura legislativa.
 La prima legge che mise a dura prova le emittenze locali sarde fu la Mammì [36] e il successivo Decreto di diniego delle concessioni. Questa legge fu una delle prime responsabili della drastica riduzione degli esempi di autorappresentazione mass-mediale in Sardegna.
 Nel 1999 il Comitato Regionale per il servizio radiotelevisivo (la CO.RE.RAT Sardegna [37] ) ha dato alle stampe il primo censimento delle radio e delle televisioni operanti nell'isola[38]. In esso sono contenuti, oltre a interessanti analisi sulla situazione dell’emittenza Regionale, numerosi dati sulle trasformazioni avvenute nelle trasmissioni locali dovute sopratutto agli scogli economici e legislativi che esse hanno dovuto affrontare negli anni ottanta e novanta.
 Per brevità si eviterà in questa sede di analizzare nello specifico le conseguenze delle leggi successive poiché, per i nostri scopi, è sufficiente capire come e in che misura, prima dell’avvento dei Nuovi Media, l’autorappresentazione della cultura sarda abbia trovato spazio nei mezzi di comunicazione di massa locali.
 Dalle ricerche portate avanti dal Co.Re.Rat Sardegna, risulta evidente che dopo un improvviso aumento delle trasmissioni a carattere locale, esse abbiano avuto un altrettanto improvviso arresto.
 Infatti, come si può notare nella Tabella 2, delle 82 radio e 19 televisioni con sede in Sardegna attive nel 1999, risultano costituite negli anni 70-74 solo quattro radio; negli anni 75-79 (in cui, come si è detto, avvenne la legalizzazione della trasmissione locale) trenta emittenti radiofoniche e tre televisive. Negli anni 80/84, la costituzione di nuove emittenti radiofoniche è in calo ma cospicua (quindici nuove radio) e le nuove televisioni sono in aumento (con quattro nuove emittenti). Il bilancio delle nuove emittenti radiofoniche e televisive nel periodo 85/89 è per entrambe in aumento: si aggiungono infatti 19 nuove radio e 8 televisioni. Tra il 90 e il 94 inizia il drastico declino dovuto all’entrata in vigore della legge Mammì e il Decreto di diniego: si hanno solo 13 nuove radio e 4 televisioni. Ma il colpo più duro si assesta tra il 95 e il 99 nel quale si ha una sola nuova emittente radiofonica e nessuna televisione.



Tabella 2. Emittenti secondo l’anno di costituzione[39]:

Ma oltre alla progressiva scomparsa di nuove emittenti, si ha un fatto ancora più eclatante che da questa tabella non è possibile notare: la chiusura di 114 radio e 20 televisioni avvenuta prima del 1999. I motivi della cessazione si riconducono al 43,86 % all’entrata in vigore del Decreto di diniego e della legge Mammì.



Tabella 3. Emittenti non più attive secondo il motivo della cessazione di attività[40]

Si potrebbe fare un’intera tesi analizzando questi dati e confrontandoli con i dati odierni, e sarebbe interessante cercare di spiegare il perchè la legislazione abbia da sempre posto vari limiti ad uno sviluppo in senso autorappresentativo della comunicazione mediatizzata.
 Ma stringendo il campo, ciò che ci interessa notare è semplicemente che la crescita dei canali di comunicazione di massa di culture Altre (la televisione statale, commerciale Nazionale e Multinazionale in primis), associata alla diminuzione dell’utilizzo dei media orali tradizionali e ad una non altrettanta crescita dei canali di comunicazione di massa locali, ha portato ad una radicale diminuzione dei canali di autorappresentazione e autodocumentazione locali in Sardegna.

1.4. I tempi cambiano, l’oralità ritorna.

In termini d’autorappresentazione collettiva, l’oralità è tornata in Sardegna soprattutto con l’uso delle reti integrate e dei media digitali. I limiti economici, burocratici e legislativi della trasmissione e divulgazione sono stati sorpassati grazie alla nuova accessibilità ai processi di produzione,elaborazione, raccolta e scambio di informazioni[41] dei nuovi media.
 “ World Wide Web, internet, DVD, CD-rom eccetera rappresentano un’eccezionale occasione e opportunità. Ma solo a patto di saperla governare in termini professionali, sociali, politici”[42].
 L’epoca dell’oralità di ritorno si configura come un’oralità nuovamente “dal basso”. Essa è finalmente permessa dalla diffusione dei processi d’allocuzione, consultazione, registrazione e conversazione digitale e si rivela come un’enorme possibilità, sia per la legittimazione e la divulgazione dello stratificato patrimonio della minoranza culturale sarda, sia per l’interconnessione delle singole realtà locali e al di fuori delle artificiali e spesso inibenti frontiere statali[43].
 Possibilità che per verificarsi necessitano però di adeguate conoscenze specifiche innanzitutto nel campo informatico, ma non secondariamente in quello culturale e della comunicazione, per evitare che i risultati siano solo una maggiore quantità delle produzioni culturali a scapito della loro qualità.
 La dispersività è un altro problema che nella rete comincia a farsi sentire: l’abbondanza di emittenti infatti rende più difficoltosa la ricerca e l’osservazione dei contenuti. Chiunque può essere emittente di se stesso e spesso si ha un’esasperazione dei processi d’autorappresentazione e autodocumentazione che sfociano in produzioni più individualistiche che culturali. I nuovi media, collegati alle reti integrate hanno reso quasi impercettibile il confine tra mezzi di comunicazione interpersonale e mass media, spazio di espressione privato e pubblico, dialogico e unidirezionale portando sia vantaggi che svantaggi.
 L’aspirazione ad avere “una comunicazione libera e che tenga conto, da diversi punti di vista, di tutti gli aspetti dei fenomeni sociali, senza nascondere informazioni sconvenienti o relative ad una parte trascurabile e minoritaria della popolazione”[44] può essere conseguita solo a patto di una fruizione consapevole, una divulgazione organizzata e di un’autodocumentazione responsabile.
 La differenziazione tra individuale e collettivo può avvenire tramite scelte ufficiali e popolari, pratiche associative e s-elettive.
Un canale ufficiale dove far convergere le conoscenze collettive dei sardi si è recentemente realizzato nel portale della Regione Autonoma della Sardegna[45] che accoglie al suo interno le più svariate materie ed è collegato a diversi siti tematici di cui uno interamente dedicato alla cultura e alla storia sarda [46], dove i contenuti non sono solo scritti, ma multimediali. È inoltre di prossima apertura un database multimediale on-line che renderà accessibili migliaia di contenuti analogici recentemente digitalizzati e presto si opererà per la raccolta del materiale degli utenti. Il progetto di biblioteca digitale sarda (cui iniziativa ha preceduto di otto mesi quello messo a punto a livello europeo, “Europeana”) sarà reperibile in internet gratuitamente presso il sito della Regione http://www.sardegnadigitallibrary.it.
Queste iniziative chiaramente, rappresentano dei grandi passi avanti per l’autodocumentazione, ma è ancora da provare fino a che punto un canale di natura istituzionale possa dimostrarsi portatore di una cultura collettiva e polifonica in modo autorappresentativo e libero da interessi esterni.

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[1] Ong W.J., 2006, op.cit.

[2] Sulla particolare e poco nota scrittura adoperata dai nuragici si veda il testo di Sanna L.,Sardoa Grammata, S’Alvure, Oristano, 2004.e “I Segni del Lossia Cacciatore, S'Alvure, Oristano, 2007, su quella prefenicia), citati in http://gianfrancopintore.blogspot.com.

[3] Come già ricordato nell’introduzione il primo documento in volgare sardo conservatosi, la Carta volgare cagliaritana, è del 1066-74, ma è solo di qualche anno successivo Il privilegio Logudorese, del 1080-85, e sono forse persino più antiche alcune schede del Condaghe di San Pietro di Silki, che Enrico Besta fa però risalire al 1073.(cfr. Ortu G.G., La Sardegna dei giudici, Ed. Il Maestrale, Nuoro, 2005, p.264-266).

[4] La maggior parte dei linguisti parla di un unica variante solo successivamente differenziata nelle macrovarianti Campidanese, Logudorese, Gallurese e Barbaricino con i loro rispettivi micro-dialetti. (ibidem)

[5] Non si tralasci inoltre, che i sardi delle diverse epoche, hanno sempre avuto a che fare con diversi popoli e la produzione culturale scritta non è esclusivamente da considerarsi quella nel volgare sardo, poiché non sono rari gli esempi in lingua latina, punica, greca, catalana, castigliana e nei volgari italiani.

[6] “L’immagine corrente della Sardegna Spagnola è quella di un periodo di grave crisi dell’economia, della società, delle coscienze. Ma è un’immagine in gran parte costruita nel secolo scorso dalle correnti storiografiche di orientamento filosabaudo che opponevano alla <<>> economica e civile medievale, favoriti dagli influssi della <>, <<>>, prodotto soprattutto della dominazione <>” da Antonello Mattone, “La Sardegna Spagnola”, in A.A.V.V.,Brigaglia M., a cura di, 1998,op.cit., p.181.

[7]Sopratutto le limitazioni implicate dall’applicazione in Sardegna dei canoni tridentini, dalla presenza dell’Inquisizione – con i suoi tribunali e le sue cámeras del tormento-e della Censura oltre che la vigilanza sul dibattito religioso e culturale. Sulla specificità del contesto sardo si veda Rundine A., Inquisizione spagnola censura e libri proibiti in Sardegna nel ‘500 e ‘600, Sassari, edito dall’Università di Sassari, Studi e ricerche del seminario di storia e della filosofia della facoltà di lettere e filosofia, 1995.

[8]Come fa notare approfonditamente Rundine A., 1995, op.cit., a partire dall’introduzione della censura preventiva, -disposta da Ferdinando con la Pragmmatica dell’8 luglio 1502- nessun libro può essere stampato o posseduto nei Regni Spagnoli senza l’apposita licenza. Tale concessione è indispensabile ad autori, tipografi ed editori sia per esercitare l’attività che per evitare la comminazione delle pene: la morte per i trasgressori e il rogo dei libri. “Con tali norme s’interrompe, anche nei regni spagnoli, quella stagione di libertà che aveva accompagnato la stampa fin dalla sua comparsa ”. E’ noto che in Sardegna -come nel resto dei regni- i sequestri e i roghi non interessavano solo i libri considerati eretici ma anche solo sospetti, o ritenuti dannosi per la Monarchia. Il libro è in quest’epoca “una <> proibita, o quantomeno pericolosa”.Si possono citare a questo proposito diversi autori, tra cui l’umanista cagliaritano Sigismondo Arquer arso vivo a Toledo nel 1571 -autore di una Sardiniae brevis historia et descriptio pubblicata nel 1550- sospettato più volte di Luteranesimo e in fine condannato anche per il possesso di <>, che al processo “sono per l’Inquisizione la prova inequivocabile che egli opta per un approccio diretto con le Scritture”(cfr. Cocco M.M.,Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafe, pp108-109, citato in Ibidem p.24.)

[9] Importante e dettagliata testimonianza della persecuzione del paganesimo o stregoneria in Sardegna si veda Pinna T. L’Inquisizione in Sardegna. Il processo di Julia Carta, Edes, Sassari 2000.

[10] Ad opera del cagliaritano Giuseppe Melis Atzeni, era redatta in lingua Italiana

[11] Sorrentino C., 2002, op.cit.

[12] (nota: in realtà all’inizio la priorità è eliminare lo spagnolo)

[13] Pratica che perdurerà nel tempo e sarà consolidata dalla Riforma Gentile del 1923 che proibirà l’uso del sardo e l’allontanamento dei maestri sardi, così come quelli delle altre minoranze presenti in Italia.

Sul trauma cultuale causato da queste imposizioni risulta emblematica la testimonianza autobiografica dello scrittore sardo Cicitu -Francesco- Masala (1016-2007): “Sono nato in un villaggio di contadini e di pastori, fra Goceano e Logudoro, nella Sardegna settentrionale e, durante la mia infanzia, ho sentito parlare e ho parlato solo in lingua sarda: in prima elementare il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero, ci proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unica lingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la <>, ci disse. Fu così che, da vivaci e intelligenti che eravamo, diventammo, tutti, tonti e tristi.”( tratto da Masala F., Quelli dalle labbra bianche, Il Maestrale, Nuoro, 1995, p.105.

[14] Cfr. Storia della stampa italiana, in 7 voll., a cura di Castronovo e Trenfaglia (1976-94), citato in Sorrentino C., 2002, op.cit.

[15] Sia a causa delle ridotte dimensioni sia poiché molto spesso era lo stesso autore ad occuparsi della vendita della sua opera.Cfr. A.A.V.V., Cecaro R. e Tola S, (a cura di), 1999, op.cit.

[16] Tola S. in Ibidem, p.10.

[17] L’autodocumentazione passiva riguarda la scelta delle informazioni, -denominata consultazione da Bordewijk e Van Kaam (1982)- intendendo il ruolo interpretato dal navigatore internet, - ma anche quello del lettore critico o dell’autodidatta - che in base a un’ampia mole di contenuti seleziona e interpreta autonomamente quelli che trova utili e considera validi ai suoi scopi. In questo senso si differenzia dagli atti documentativi e informativi nel quale la selezione delle nozioni e delle notizie avviene da un soggetto esterno -l’emittente- e la ricezione - da parte del destinatario nel suo contesto- per quanto dinamica (e con possibili risvolti partecipativi e interattivi) risulta passiva (in questo caso Bordewijk e Van Kaam (1982) parlano di allocuzione) .

[18] Sorrentino C., I percorsi della notizia. La stampa quotidiana in Italia tra politica e mercato , Baskerville, Bologna, 1995 citato in Sorrentino, 2002, p.44-45.

[19] Ong 2006, op.cit.

[20] Per una dettagliata analisi dello sviluppo delle comunicazioni in Italia si rimanda a Sorrentino C., 2002 op.cit. (cfr. Sopratutto secondo capitolo); Mancini P., Il sistema fragile. I mass media in Italia tra politica e mercato, Carocci, Roma, 2000.

[21] Come ricordato in precedenza, non mancano le produzioni scritte anche nelle altre epoche. Per comprendere in maniera approfondita la portata della produzione letteraria in Sardegna nei vari secoli, si veda A.A.V.V., Dizionario Enciclopedico della Letteratura di Sardegna, Ed. Biblioteca di Sardegna di Cargeghe, 2007 e A.A.V.V., Grande Enciclopedia della Sardegna, a cura di Floris F., La Nuova Sardegna, Sassari, 2007 (consultabile anche su http://www.sardegnacultura.it/j/v/321?s=7&v=9&c=2475&c1=28430&o=1&na=1&n=10) .

[22] Come a proposito notò Masala F.,1995, op.cit., p.105, gli intellettuali in Sardegna “parlano in italiano ma mangiano in sardo”.

[23] Portata avanti soprattutto dai media di comunicazione di massa televisivi e radiofonici statali e avvenuta contemporaneamente in tutto il territorio italiano.

[24] Il costante scambio con popolazioni straniere obbligava la popolazione al bilinguismo, fosse la seconda lingua il sardo della zona adiacente o il latino dei Romani, il greco dei bizantini, i volgari italici dei pisani, dei genovesi, dei corsi o dei napoletani, l’arabo degli algerini o il catalano, lo spagnolo e il basco degli iberici. Non si può dimenticare inoltre la minoranza Tabarchina dell’isola di San Pietro.

[25] “I condizionamenti educativi,affettivi, politici, sociali” che determinano l’agire espressivo del poeta di “una ‘piccola patria’ come la Sardegna”.(Cfr. Golino E., Pasolini, il sogno di una cosa Pedagogia,Eros, Letteratura, dal mito del popolo alla società di massa,Tascabili Bompiani,Milano 2005, p.187).

[26] Pasolini P.P., Lettere luterane, il progresso come falso progresso, Torino, Enaudi Gli Struzzi, 2002.(p.176, 183)

[27] Ibidem.

[28] Mancini P., 2000, op.cit., p.74.

[29] Ibidem. La definizione è di Bettetini G., Televisione: la provvisoria identità nazionale, Fondazione Agnelli, 1958.

[30] Cfr. Mancini P., 2000 op.cit., pp. .23/78.

[31] Ibidem, p. 81.

[32] Ibidem.

[33] OrtolevaP. Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, Ed.Liguori, Napoli,1994, p.121.

[34] Come fa notare Mancini 2000, p.84 “nel 74 c’erano già state due sentenze della Corte Costituzionale, la n. 225 e la n. 226 che avevano introdotto una prima limitazione del monopolio pubblico consentendo la trasmissione via cavo da parte di emittenti private”.

[35] Poi Radio Cagliari e assorbita dalla Rai, fu soppressa nel 1992 insieme a tutte le altre sedi regionali del servizio pubblico, limitato da allora ai soli notiziari giornalistici; Radio Sardegna ha riniziato le trasmissioni culturali nel 2005.

[36] Legge n.223 del 6 agosto 1990.

[37] Per approfondimenti sul Comitato Regionale per il servizio radiotelevisivo della Sardegna cfr. http://consiglio.regione.sardegna.it

[38] A.A.V.V, L'emittenza locale in Sardegna-primo censimento delle radio e delle televisioni operanti nell'isola, (aggiornato al gennaio 1999), Consiglio Regionale Della Sardegna, Comitato Regionale per il servizio radiotelevisivo, Co.Re.Rat. Sardegna, Cagliari 1999.

[39] Questa tabella è ripresa da quella contenuta in A.A.V.V, L'emittenza locale in Sardegna-primo censimento delle radio e delle televisioni operanti nell'isola, 1999, op.cit., p. 66.

[40] Come sopra, p.225.

[41] Crf. Ciotti F 2003 , op.cit., p. V.

[42] Toschi L., in AA.V.V., 2001,op.cit., p.XIII.

[43] Sui rischi e le sfide della globalizzazione e della globalizzazione dal basso si veda l’analisi del contesto toscano in Diodato, E., AA.VV., La Toscana e la globalizzazione dal basso, Libreria chiari Firenze Libri S.R.L., Firenze, 2004.

[44] Corsivo mio. Crf. Stefano Rotondi L'EVOLUZIONE DEL POTERE DEI MEDIA E LA COMUNICAZIONE DIGITALE, Facoltà di LETTERE E FILOSOFIA, Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Anno Accademico: 2005/2006, reperibile su http://www.studiamo.it/tesi-di-laurea/comunicazione/comunicazione.php#0.

[45] http://www.regione.sardegna.it/

[46] http://www.sardegnacultura.it