4. Una questione d’uso

4. Capitolo; Sardignità: Una questione d’uso.

4.1. Usare la tecnologia senza esserne usati.
4.2. Autorappresentazione interattiva.
4.3. Autorappresentazione intrecciata in Sardegna.
4.4. Rappresentazione reciproca di differenze.
4.5. FLOSS vecchie quanto i canti…







4.1. Usare la tecnologia senza esserne usati
.



Qualsiasi tecnologia della comunicazione ha effetti diversi nella società e negli individui, a seconda che essa sia usata dalle classi dominanti o sia interiorizzata e usata dalla maggioranza della popolazione.
Ma c’è da notare che, per una cultura storicamente minoritaria (e addirittura composta di minoranze come quella sarda), il principio, di per sé democratico, della maggioranza numerica non risulta adeguato (anche perché troppo teorico o strettamente relativo al bacino d’osservazione).
Se è vero che ogni cultura, percepita come tale dai suoi depositari e portatori, incarna una costruzione di significati e una ricchezza per l’intera umanità, più che al principio della maggioranza, ci si deve riferire al diritto (e al dovere) di esistere di qualsiasi differenza[1] e alla necessità dell’interscambio di contenuti autorappresentativi come obbiettivo di ogni minoranza culturale.
Usare le tecnologie senza esserne usati è non solo conveniente, ma in qualche maniera necessario per qualsiasi persona che voglia vivere responsabilmente in qualsiasi contesto sociale.
Riguardo la divulgazione di una cultura riconoscibile come collettiva e dunque polifonica, questo va a significare che il sistema sociale nella sua interdipendenza con gli altri sappia usare e fruire dei mezzi di comunicazione in maniera critica e responsabile, in modo da poter partire dalla proprie specificità comuni (e non) per la costruzione di una visione identitaria pertinente ma flessibile, soggettiva ma condivisibile, stabile ma valutativa, e una visione del mondo meno astratta e più umana.
Per ridurre al minimo le perdite ed incrementare i benefici degli scambi e dei flussi culturali, è necessario che ogni minoranza culturale interiorizzi collettivamente gli strumenti e le pratiche autorappresentative; che le sappia integrare e confrontare con quelle degli altri con critica e autocritica, stima e autostima.

La mancata interiorizzazione di qualsiasi mezzo di comunicazione, e dunque la limitatezza di pratiche autorappresentative in un dato medium, hanno indubbiamente lo sconveniente risultato di sovraccaricare la società di visioni e giudizi esterni, cosa che a lungo andare rischia di far perdere ai suoi membri la visione del mondo a partire dalla propria imprescindibile realtà, oltre che aumentare l’insofferenza, l’apatia e il sentimento di impotenza verso i problemi collettivi.

4.2. Autorappresentazione interattiva.



L’autorappresentazione, intesa come processo comunicativo nel quale gli stessi soggetti interessati creano le proprie visioni della realtà, simbologie, cognizioni culturali e d’interscambio sociale, non è certamente una pratica recente.
Per quanto in molti contesti si evidenzino le finalità dell’autorappresentazione di una determinata cultura in sostituzione o associazione di una rappresentazione esterna, non si possono non considerare come autorappresentative anche tutte quelle produzioni culturali nate all’interno di situazioni spaziali delimitate che, in qualche maniera, sono state tali a livello microculturale di una qualche fascia sociale in una determinata comunità.
Il cambiamento offerto dai nuovi media e dalle reti integrate, nell’ottica delle dinamiche autorappresentative, consiste soprattutto nel permettere in maniera molto più accessibile la produzione dei propri contenuti e la divulgazione del proprio punto di vista, oltre che la sua integrazione con quello degli Altri in una situazione di interattività più equa e in un contesto culturale, spaziale e temporale allargato.
D'altronde “se oggi diciamo che il mondo è diventato multietnico e multiculturale non è perché le società e le culture siano più numerose di una volta, ma perché parlano con voce sempre più autonoma e determinata” [2].
Se è vero come afferma Simmel, che l’individuo umano si crea nel processo, nella relazione, nel legame con gli altri”[3], è facile immaginare come i flussi comunicativi e dunque lo scambio di autorappresentazioni abbiano da sempre costituito il vero fulcro delle attività culturali umane.
Dopo anni e secoli di trasmissioni accentrate e limitate dai poteri di turno, la strutturazione reticolare dei Nuovi media lascia perlomeno sperare che, leggi e censura permettendo, le varie comunità culturali possano finalmente avvantaggiarsi di una comunicazione allargata dal basso.
D'altronde, seppure alfabetizzazione e investimenti economici restano comunque ingredienti imprescindibili per l’uso di qualsiasi tecnologia comunicativa, è anche vero che rispetto al passato il numero di comunità cui accesso ai media è possibile risulta aumentato.
La crescente convergenza e organizzazione dei contenuti, la loro fruibilità e interattività nel processo di divulgazione, rinnovamento e costruzione dei punti di vista, non potrà che avvantaggiare anche la crescita collettiva e con il tempo anche quella individuale.



4.3. Autorappresentazione intrecciata in Sardegna.


Come precedentemente accennato, la cultura sarda[4] ha praticato l’autorappresentazione soprattutto attraverso le tecnologie della parola e le tecnologie rituali e artistiche popolari.
Senza addentrarci nella descrizione di queste pratiche, per cui esiste un’ampia bibliografia in merito[5], è necessario notare come queste non abbiano necessariamente esaurito il loro compito, e che anzi, proprio nell’epoca contemporanea, possano instaurare un rapporto di interdipendenza con l’informazione dei nuovi media, in cui è possibile il ritorno di una nuova oralità.
Il problema odierno, dunque, non è la scarsità o la limitatezza dei processi autorappresentativi sardi odierni e passati, riguardanti la cultura sarda o no, ma il fatto che essi siano poco conosciuti da quelli che potrebbero esserne i depositari e gli innovatori.
Nonostante la ricchezza del patrimonio culturale sardo e la continuità delle produzioni artistico/intellettuali isolane, è perdurato per decenni il pregiudizio d’inferiorità del Sardo in contrapposizione a tutto ciò che è Italiano o estero[6]. Pregiudizio che ha negativamente influenzato la valorizzazione del proprio patrimonio in un’ottica dialogica paritaria e d’interscambio dignitoso.
Seppure ancora oggi il nazionalismo Statale sia tutt’altro che superato, e il localismo più evidente nel contesto italiano risulti quello della “Padania” (che ben poco ha a che vedere con l’autorappresentazione culturale, la diffusione del valore della diversità delle culture e della dignità dei popoli), è da anni osservabile in Sardegna una spinta intellettuale molto forte che, per quanto ancora scarsamente percepibile dalla popolazione isolana e dai media di comunicazione di massa, sta lentamente cercando di canalizzare le nuove competenze ed esperienze dei sardi in una giusta valutazione collettiva del proprio passato per una costruzione più sostenibile del futuro.
Come precedentemente accennato, la Regione Autonoma della Sardegna si è presa recentemente carico della digitalizzazione e divulgazione on-line di una vasta quantità di materiale chirografico, tipografico, fotografico, audio e video precedentemente archiviato analogicamente. Oltre a questo, vari livelli di governo locale si stanno attivando per l’attivazione di politiche culturali e linguistiche soprattutto, ma non esclusivamente, on-line e per la raccolta e la condivisione del patrimonio collettivo da parte dei singoli individui.
Ma queste spinte divulgative, per quanto molto importanti, serviranno a poco senza una adeguata politica locale di informatizzazione degli abitanti della Sardegna, che solleciti, oltre a permettere, una fruizione interattiva e un rinnovamento polifonico dei contenuti e del patrimonio della memoria collettiva.
Per quanto riguarda i canali massmediali, l’autorappresentazione risulta ancora alquanto limitata.
Nonostante gli sforzi normativi della regione volti a incentivare la promozione e la valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna[7], dell’editoria e dell’informazione locale[8], e del cinema sardo[9], effettivamente la mancanza di una contemporanea politica culturale improntata su un’adeguata media-education e la limitatezza di capitali d’investimento nei vari campi, non ha ancora portato a conseguenze dirette per quel che riguarda l’interiorizzazione del proprio patrimonio culturale e la divulgazione del proprio punto di vista sui fatti del mondo da parte dei sardi.
Per quanto riguarda l’oralità poi, nonostante le sempre più frequenti “registrazioni” di testimonianze individuali e memorie collettive, non sì può dire affatto sfruttata la peculiarità propria della cultura sarda così come delle altre culture prevalentemente orali, che consiste nel aver tramandato e rinnovato fino ad oggi tutte quelle pratiche comunicative considerate extrachirografiche.

4.4. Rappresentazione reciproca di differenze.

Nella nostra epoca, come noto, si può dire che si assista a due correnti opposte e allo stesso tempo complementari.
La prima è quella delle multinazionali produttive (corporation) che cercano di imporre standard mondiali (culturali come educativi, storici, sociali, etici ed estetici).
L'altra corrente è quella di tutte le varie minoranze di cui il mondo è composto che cominciano a dubitare della sussidiarietà delle proprie conoscenze e dei propri modelli rivendicandone l'efficacia e la sostenibilità alla faccia degli epiteti dati dall’alto dai poteri statali, multinazionali o religiosi, e che cominciano a organizzarsi e associarsi per la condivisione e la divulgazione dei propri punti di vista.
Senza addentrarci nelle dinamiche interessate dalla prima corrente, ciò che ci interessa brevemente notare è se in Sardegna i nativi o residenti possano identificarsi come appartenenti alla seconda.
Come più volte ricordato dallo scrittore e giornalista sardo Sergio Atzeni “conoscere la storia della propria terra è un diritto-dovere al quale ognuno di noi non può e non deve rinunciare”.
Nel caso della Sardegna questa frase acquista un valore intrinseco molto importante, poiché, nella situazione attuale, i Sardi (intesi come popolazione con una stratificata storia di migrazioni e colonizzazioni, scambio e isolamento) non possono definirsi abitanti consapevolmente inseriti in modo maturo e responsabile nel presente contesto planetario.
In un epoca dove al tramandare orale interpersonale si sono bruscamente sostituite l’educazione dell’obbligo di Stato e l’informazione dei media di comunicazione di massa, si è venuta a formare una generazione di cui una percentuale molto alta risulta quasi completamente inconsapevole della storia, della cultura e della lingua che concretamente gli appartengono e di cui dovrebbero essere i depositari.
Come recentemente documentato dagli innovativi saggi[10] del semiologo Franciscu Sedda, sostenuto dalle tesi di Certeau, dagli studi semiotici di Jurij M. Lotman e da quelli filosofici di Paul Ricoeur, si nota una radicale “rimozione”[11] del soggetto Sardegna dalla memoria che viene trasmessa dai canali ufficiali Statali[12], lasciando che la sua storia e la sua cultura riesca ad emergere solo dalle esperienze di vita quotidiana e dalle ricerche autodidatte che un sardo incontra e ricerca nella sua crescita personale.
Data l’enorme crescita dei flussi comunicativi creati dall’esterno e l’insufficienza di quelli autorappresentativi, molto spesso l’attenzione dei sardi è rapita dalla realtà mediatica, nella quale i “grandi problemi del mondo” per quanto influenti anche nella realtà locale sembrano non offrire possibilità di risoluzione diretta. La percezione di impotenza è poi esasperata dallo sminuimento dei problemi locali sardi (quali l’emigrazione, la disoccupazione, le sterminate servitù militari e la recente privatizzazione dell’acqua ad opera della società per azioni Abbanoa eccetera) ad un ruolo di “calamità” al quale non è possibile rispondere né dare una soluzione.
Il circolo vizioso che s’instaura in questi meccanismi è quello che porta le popolazioni a non compiere una seria autocritica del proprio sistema e a non maturare una responsabile autostima per la risoluzione dei problemi globali.
È comprensibile che, in Sardegna, dopo secoli di scambi comunicativi graduali e progressivi, la ricezione di così tante notizie dall’esterno provocasse un iniziale stordimento e assuefazione.
Data l’incapacità e la pigrizia dei poteri locali di farsi portatori delle esigenze culturali e rivendicatori delle istanze legislative della popolazione che rappresentavano per interi decenni si ha avuto un aggravamento della situazione che probabilmente sta avendo il suo punto di svolta proprio in questo periodo, grazie alle pratiche autorappresentative e agli scambi di informazioni dal basso mediali digitali.
La rappresentazione reciproca di differenze, la necessità di ricostruire le condizioni in base a cui la parola dell’altro e la propria si formano e si trasformano di continuo[13] e lo scambio con le altre culture minoritarie nel contesto planetario stanno diventando nel web delle realtà non solo inerenti le pratiche etnografiche ma anche quelle più comunemente informative e di comunicazione.
Senza stare a censire tutti i siti, i blog, i giornali, le radio, le televisioni, le banche dati, le comunity che riguardano la cultura Sarda e le altre culture “non statali”, è sufficiente in questa sede constatare che, navigando on line, le iniziative culturali dal basso non sono affatto esigue, e si fa strada un modello di divulgazione sia virtuale, che concretamente intrecciato ad eventi, fatti e personalità del territorio.
Anche lo scambio con punti di vista esterni ma comunque “dal basso” si fa più frequente, e nonostante le multinazionali della comunicazione continuino ad avere un grande peso nella formazione del punto di vista dei sardi, è anche vero che la barriera tra informazione e controinformazione è nella rete molto labile, cosicché chiunque cerchi dati su un determinato argomento può facilmente accedere alle diverse sue interpretazioni, anche di tipo autorappresentativo.
In questo senso, risulta ancora molto limitante la scarsa conoscenza di lingue straniere, sia di quelle considerate “internazionali”, prima su tutte l’inglese, lo spagnolo e l’arabo, che di quelle riguardanti situazioni culturali affini, per esempio quelle delle altre minoranze europee e mediterranee.
Altro problema non irrilevante consiste nella mancata interiorizzazione dei media di comunicazione di massa “orali”, ossia radio e televisione.
La totale assenza di un’adeguata educazione mediatica nei programmi ministeriali italiani e gli eccessivi oneri economici e burocratici che dagli anni novanta caratterizzano le trasmissioni radiotelevisive, rappresentano un vero e proprio cancro nel sistema di comunicazioni a scopo autorappresentativo in Sardegna.
La digitalizzazione delle trasmissioni, in questo senso, potrebbe almeno portare alla compressione dei dati, con conseguente aumento delle frequenze a disposizione, anche se non è ancora chiaro come esse saranno ridistribuite.
Il così detto Digitale Terrestre, che ha visto la Sardegna (insieme alla Valle D’Aosta) protagonista della sperimentazione Italiana, non ha ancora dato segni tangibili della sua effettiva validità. Infatti seppure le tecnologie di trasmissione TDT (oltre a fornire una trasmissione audiovisiva di maggior qualitá ) potrebbero già rendere possibile il collegamento ad internet in tutte gli apparecchi televisivi e una serie di validi servizi di interazione sopratutto tra cittadini e istituzioni, i decoder che sono stati coperti dal finanziamento statale (e che per molti hanno rappresentato l’unica tecnologia abbordabile) permettono solo la sperimentazione delle carte prepagate e poche interazioni riferibili allo svago o all’acquisto.

4.5. FLOSS vecchie quanto i canti…

In ambiti informatici si denominano FLOSS i Free/Libre e gli Open Source Software ossia i programmi cui codice sorgente risulta “libero” o “aperto” ossia da tutti leggibile e modificabile liberamente.
La differenza tra questi due termini risulta sottile, in quanto, nonostante entrambe le filosofie permettano “a chiunque di modificare il codice e sviluppare nuovi programmi e applicazioni, in una spirale virtuosa di innovazione tecnologica, basata sulla cooperazione e la libera circolazione della conoscenza tecnologica” [14], la prima pensa più che altro ai vantaggi derivanti dalla libera circolazione delle informazioni, la seconda agli eventuali sviluppi commerciali di un dato programma.
La possibilità di vedere il codice di un programma, di capirlo e di poterlo modificare, significa innanzitutto dare le chiavi d’accesso per fare propria, correggere e migliorare l’insieme di tecnologie virtuali esistenti.
In diversa misura entrambe rappresentano delle politiche “dal basso” di collettivizzazione delle conoscenze rivoluzionaria che insieme alle politiche del Creative Commons stanno contribuendo a diffondere il libero sviluppo e la fruizione popolare della conoscenza non solo nella rete.
In questo senso si muovono anche i promotori dell’ “Uso comunitario dei media”, ovvero chi promuove “tutti quegli espedienti, materiali e culturali, necessari per ridurre il più possibile il numero di mezzi di comunicazione utilizzati e, contemporaneamente, rendere il più alto possibile il numero delle persone coinvolte nel loro impiego[15]”. Essendo infatti “la scarsità di mezzi e di risorse una delle problematiche più determinanti nel generare disuguaglianza nell’accesso ed uso delle ICT, è evidente come l’utilizzo comunitario dei media sia una valida soluzione attraverso cui poter ridurre il Divario Digitale, soprattutto in quelle realtà dove le risorse finanziarie, tecnologiche, infrastrutturali, sociali e culturali sono scarse. Uso comunitario, dunque, come strategia e soluzione che permetta un utilizzo più esteso possibile dei media, a fronte del bassissimo numero di unità tecnologiche disponibili sia in termini assoluti sia in termini relativi alla popolazione”[16].
Senza addentrarci nella interessante illustrazione di queste pratiche[17] e nella necessità della loro diffusione anche nei paesi per così detti occidentali (che tanto hanno peso nell’interiorizzazione dei nuovi media soprattutto nelle fasce di popolazione più indigenti), è qui utile almeno far notare come queste filosofie in realtà non facciano altro che riproporre a livello allargato le regole di condivisione della conoscenza che avveniva in contesti prevalentemente orali.
È evidente, infatti, come la grande stratificazione e ampiezza di diffusione delle memorie e delle pratiche di trasmissione, divulgazione e innovazione orali fosse dovuta proprio a una condivisione delle tecniche di produzione della cultura nonché di una libera e allargata fruizione dei contenuti.
Nella rete, così come nell’oralità, non si producono discorsi compiuti ma performance[18] discorsive dialogiche caratterizzate da densità, multiculturalità e multimedialità, senza barriere se non linguistiche o di competenza.
La Sardegna e le popolazioni che la abitano e la hanno abitata, hanno sempre preferito, per ragioni metodologiche e pratiche, metodi di trasmissione che risulterebbe limitato definire orali poiché coinvolgono anche le comunicazioni visive, sia plastiche che effimere[19].
In sintesi, si può affermare che la cultura in Sardegna è così stratificata e ancora così forte perché le vie della trasmissione erano e sono tuttora enciclopediche e da sempre “multimediali” cosicché seppure alcuni canali di trasmissione siano stati per intere epoche preclusi alla fascia popolare dei sardi, è sotto gli occhi di tutti che la cultura sarda viene continuata a tramandare e continua così a formare soggettivamente i suoi depositari, anche se non in maniera totalmente consapevole.
Effettivamente la vera necessità odierna, affinché ci si responsabilizzi sul proprio patrimonio culturale e su quello del mondo, è fare in modo che i media siano interiorizzati e continuino ad essere usati sempre più intrecciatamente, e che nessuno dei vecchi venga escluso o relegato ai “sistemi esperti”.

In questo senso, l’espandersi delle filosofie Free e Open Source non fa che dimostrare l’umana esigenza alla condivisione, allo scambio, alla partecipazione; lasciando intendere come la comprensione dei contenuti delle comunicazioni non possa essere scissa da un uso consapevole delle tecniche comunicative.



________________________________

[1] Ad esclusione delle pratiche violente e non dignitose (prime fra tutte le torture, le mutilazioni rituali e le pene corporali).

[2] Cfr. Kapuściński R., Conferenze Viennesi 2004, in TEN INNY, ( traduzione It. Verdini V.,L’altro, Feltrinelli ,Milano, 2007.

[3] Citato in Kapuściński R., 2004, op.cit.

[4] Così come mille altre periferiche rispetto ai centri di potere, con tardata interiorizzazione della scrittura o praticanti almeno parzialmente il nomadismo.

[5] Sicuramente molto più vasta di quella che ho avuto modo di visionare personalmente.

[6] Pregiudizio derivante dall’impostazione accentratrice della colonizzazioni prima, e dalle costruzioni di significato ed identitarie del Risorgimento, del Fascismo e dell’Italia Repubblicana poi, che vedevano nella ricchezza culturale delle periferie più un ostacolo che un vantaggio.

[7] Cfr. Legge Regionale 15 ottobre 1997, n. 26 .

[8] Cfr. Legge Regionale 3 luglio 1998, n. 22 .

[9] Cfr. Legge Regionale 20 settembre 2006, n. 15.

[10] Franciscu Sedda, tracce di memoria,Fondazione Sardinia 2002.

[11] Cfr. Bandinu 1996, Certeau 1975 citati in Franciscu Sedda, Ibidem.

[12] Nello specifico degli studi di Sedda, si fa riferimento alla “rimozione” nei libri di scuola, ma questo studio è facilmente trasportabile ai contenuti dei flussi informativi e mediatici dei media di comunicazione di massa.

[13]Dal Lago 2002, op.cit, p. XLII.

[14] Crf. Castells, 2001,citato in IMMOVILLI L., DIGITAL DIVIDE E SVILUPPO UMANO Contraddizioni e squilibri della Società in rete, Tesi di Laurea, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MODENA E REGGIO EMILIA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Anno Accademico 2005 – 2006., reperibile su http://www.pro-digi.org/tesi/TESI_Luca_Immovilli.pdf.

[15] Cfr. Maffioli, 2005, p. 170, citato in ibidem.

[16] IMMOVILLI L, tesi di laurea 2005-2006, opera cit., p.298.

[17] Il classico esempio di utilizzo comunitario dei nuovi media è quello dei telecentri, o Internet-cafè: “quei locali che forniscono accesso a computer collegati ad Internet gratuitamente o ad un costo relativamente bassot”(cfr. ibidem p.298). Un esempio di utilizzo comunitario dei media di comunicazione di massa sarebbe invece quello delle “radio comunitarie”: piccole emittenti locali, che trasmettono in un raggio di venti, cinquanta, massimo cento chilometri, che vengono definite comunitarie in quanto create direttamente dalle comunità, dai gruppi informali e dai cittadini, che sono anche l’oggetto, i soggetti ed i destinatari delle trasmissioni.

Questo tipo di trasmissioni, evidentemente autorappresentativo potrebbe essere incentivato per un ridimensionamento dei flussi comunicativi esterni a vantaggio di una comunicazione più equa e responsabile della diversità.

[18] Ong 1986; citato in Dal Lago, 2002, op.cit., (Molinari A. Etnografia Sociale e storia p.15)

[19] Interessante, a proposito, confrontare A.A.V.V.,Pani tradizionali, arte effimera in sardegna, a cura di Cirese A. M., Delitala E., Rapallo C., Angioni G., Editrice Democratica Sarda , Cagliari 1977.

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