Appendice 1

Non esiste Oriente se non per l’Occidente (e viceversa..).



Si sente dire a molti italiani che hanno conosciuto persone sarde nelle loro città “I sardi sono troppo testardi, chiusi”; altrettanto spesso si sente dire a quelli che hanno viaggiato per i paesi e le città sarde “I sardi sono così gentili e ospitali”.
Gli italiani vedono nella Sardegna una regione d’Italia, ma, appena hanno a che fare con i sardi o la Sardegna, sentono la differenza e la marcano, positiva o negativa che sia.
Anche i sardi in genere si sentono abitanti di una delle tante regioni d’Italia, ma, appena hanno a che fare con gli abitanti delle altre regioni notano senza esitazioni: “siamo diversi”.
Le accezioni dell’aggettivo diverso sono le più svariate e ve ne sono sia di positive che di negative, ma quello che ci interessa notare è come spesso essa sia una differenza sconosciuta, ignorata da entrambe le parti.
Quando una persona oltrepassa frontiere politiche di altri stati d’Europa o del mondo, si prepara psicologicamente alla diversità, sa che in quei contesti troverà l’“Altro” e diventerà “Altro” a sua volta. Fino a cinquant’anni fa chi parlava solo varianti del sardo e si accingeva a viaggiare (o molto più spesso ad emigrare), non faceva differenza se la sua destinazione fosse un'altra regione italiana o l’estero, sapeva che, ovunque sarebbe arrivato, avrebbe dovuto relazionarsi non solo con estranei ma con “diversi” e che il rapporto sarebbe stato reciproco, perché anche lui sarebbe stato considerato estraneo e “diverso”. Non si sapeva cosa significasse essere stranieri e forse non si comprendeva cosa significava essere sardi, ma si sapeva di esserlo.
Non era una questione di dogana ma di cultura e chi emigrava ne era cosciente.
Al giorno d’oggi qualcosa è cambiato. I sardi, in genere, parlano l’italiano correttamente, sono immersi nella realtà costruita dai media, dalle mode, dai prodotti italiani. Si sentono italiani, e quando emigrano per motivi di studio o di lavoro in un'altra regione d’Italia, non pensano di dover interpretare il ruolo di stranieri.
Ma quando il sardo esce dalla Sardegna per andare nella penisola italica, si trova a vivere un impatto culturale a cui non è preparato.
La diversità è qualcosa di intrinseco e sempre più individualista, difficilmente associabile a una nota caratteristica, eppure tangibile e ancora associabile a valori generali e spesso dati per superati, quali quelli spaziali o culturali.
C’è chi se ne vergogna e chi se ne vanta, ma solo chi riesce a vivere ignorandola può fare a meno di sentirla.
L’imposizione di gerarchie all’interno delle culture ha fatto assumere al concetto di “diversità” un carattere controverso.
Scrisse Pasolini, quarant’anni fa “fin ché il 'diverso' vive la sua 'diversità' in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di 'diverso', oppure semplicemente, osa pronunciare delle parole 'tinte' dal sentimento della sua esperienza di 'diverso', si scatena il linciaggio, come nei più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più
goliardico, l’incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella vergogna.”[1]
Oggi –almeno in linea di massima- non è più così: tutti ci sentiamo diversi l’uno dall’altro, eppure cerchiamo in queste diversità qualcosa che ci accomuni, e nelle nostre rassomiglianze qualcosa su cui fondare un dialogo. Non si è più disposti a nascondere la diversità e nemmeno è più realistico sentirla come qualcosa di cui vantarsi; si espande il sentimento per cui la maggioranza è un sentimento indotto, e tutti siamo parte di una qualche minoranza, che sia di pensiero, di usi, di ideali, di gusti, di religione, di lingua. I portatori di una cultura minoritaria sono una minoranza come lo sono quelli che si informano tramite i giornali rispetto a chi lo fa guardando la televisione, o chi preferisce mangiare in un ristorante giapponese al centro di una città della Toscana.
Ed è non solo lecito, ma necessario, che ogni minoranza si faccia portatrice della sua parte del fardello culturale, affinché tutta l’umanità contemporanea e futura ne possa ancora usufruire e avvantaggiare.

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[1] Pasolini P.P., 2002,op.cit., p.25-26.