Conclusioni

“La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”.

Pier Paolo Pasolini

Un qualsiasi strumento, in genere, non è di per sé né buono, né cattivo, né neutrale. Come potrebbe esserlo? Forse solo le mine, le bombe, i mitra sono di per sé crudeli perché il loro risultato, al di fuori dello scopo, è inevitabilmente quello di mutilare, ammazzare, impaurire. Tentenno a chiamarli strumenti, essi sono strumentali solo al dolore e la loro produzione è finalizzata più al guadagno che alla loro effettiva utilità.
Pensiamo invece al bastone, probabilmente il primo vero strumento usato dall’uomo: può essere usato per colpire, far male, anche per ammazzare. Può essere un’indispensabile aiuto per camminare. Può essere usato per indicare meglio una stella e una via. Può essere usato per suonare i tamburi e le campane, per accendere un fuoco e addirittura per scrivere.
E quando si va in spiaggia d’inverno, con un bastone si possono disegnare figure immense nella sabbia bagnata.
Se ho un bastone posso tendertelo quando stai per scivolare in un burrone, oppure posso metterlo tra le ruote del tuo carro anche quando non ce n’è motivo.
Parafrasando Melvin Kranzberg possiamo fondatamente dire: Il bastone non è né buono né cattivo. E non è neppure neutrale[1].
Il bastone era reperibile anche in natura. Non è stato inventato, ma sono stati inventati i suoi usi. Probabilmente non è stato mai né acclamato né criticato, ma solo raccolto, scelto, migliorato, sostituito, sicuramente utilizzato.

Dopo il bastone ogni nuovo strumento è stato inventato da qualcuno, ed è stato posto al giudizio degli altri: acclamato come salvatore dell’umanità, accusato di distruzione, ma sempre percepito come partigiano.
Ogni novità ci lascia perplessi, poi ci rende entusiasti o impauriti, sostenitori o critici. Ma appena impariamo a usarla, e dunque la conosciamo, capiamo automaticamente che tutto dipenderà da che uso ne faremo e ne faranno gli altri.
Ciascun nuovo medium è stato ritenuto responsabile in diversa misura di peggiorare o migliorare la condizione umana.
Fondamentalmente, i pro è contro non sono intrinseci ad uno strumento, ma dipendono fortemente dall’uso che con esso si fa nella società. Col bastone di solito si cammina, non si prende a colpi il primo che capita, ma questo probabilmente è così solo da qualche millennio, forse da quando è stata inventata la prima lama.
Le critiche più accanite negli ultimi anni si sono rivolte verso la Televisione. Ovviamente, il vero bersaglio delle accuse non era il Medium stesso, ma l’uso che ne veniva fatto, i contenuti che con essa venivano diffusi, l’uso non interiorizzato che la rendeva incompresa.
Queste critiche non sono affatto esagerate, se si pensa alla vastità e alla bellezza delle culture umane, o a quante persone dedicano la propria vita a studiare e arricchire la cultura e a quanto poco spazio questo trovi nelle trasmissioni televisive odierne. E nemmeno se si pensa alle potenzialità della televisione come mezzo di istruzione e divulgazione della conoscenza e all’uso troppo spesso indirizzato dalla politica e dal mercato per averne dei veri vantaggi.
Quando la Rai ha insegnato l’italiano ai sardi, così come ai romani, ai calabresi e ai veneziani, l’ha fatto attraverso programmi appositi e l’uso di un linguaggio semplice e scandito. Al di là delle polemiche dovute al bigottismo, che spesso sfociava in censura, e alla diffusione della cultura del consumo e che è venuta quasi contemporaneamente, la televisione si è dimostrata capace di diffondere una lingua, e questo in ogni caso non fa che dimostrare la relatività di ogni strumento all’uso che ne viene fatto.
Probabilmente se esistesse una televisione in inglese o, che so io, in tibetano, e parlasse con ritmi e modi specifici per stranieri, in pochi anni tutti conosceremmo e sapremmo usare anche queste lingue. D'altronde, Non è mai troppo tardi, certo, ma fino a quando sarà troppo presto?
Le nuove critiche si sono poi rivolte ai computer, a internet, ai cellulari…inutile dire che tutto dipende da che uso di essi si fa e si farà.
La Sardignità, o se si preferisce, la comunicazione dignitosa della cultura sarda, è, come abbiamo detto nel primo capitolo, una questione di mezzi. Sempre che i mezzi siano usati per aprire, invece che per chiudere, per diffondere invece che per censurare, per oltrepassare più facilmente il tempo e lo spazio invece che per renderli confusi e incerti.
I nuovi mezzi di comunicazione trascendono spazio e tempo: mescolano luoghi e epoche diverse in un unico messaggio che a sua volta potrà essere fruito in posti e momenti diversi.
Tempo e spazio non sono però imprescindibili dall’essere umano, che sempre e comunque vive la sua esistenza solo in uno spazio e in un tempo alla volta.
Negare l’essere umano d’appartenenza a un luogo e a un epoca è artificiale quanto dichiarare una cultura appartenente esclusivamente ad un unico spazio o tempo.
La cultura orale in Sardegna ha da sempre avuto un ruolo importante nella trasmissione e comunicazione della conoscenza e questa peculiarità potrebbe essere molto utile se adeguatamente trasportata ai mezzi protagonisti dell’oralità di ritorno.
Ma c’è da notare che questa possibilità non è ancora stata sfruttata poiché, in proporzione ai contenuti elaborati nei vari campi della comunicazione massmediatica, è evidente l’insufficienza della diffusione e della conoscenza della produzione culturale popolare e intellettuale propria, in una parola: indigena.
Indigena non significa solo in lingua sarda. I sardi e le sarde, complice la storia e la geografia con cui hanno convissuto, hanno trasmesso le loro conoscenze attraverso l’uso di diverse lingue, e ai giorni odierni l’uso dell’italiano ha acquisito diffusioni tali da poter considerare questa lingua parificata in Sardegna.
Indigena, in tale contesto, va a significare allora, quella produzione culturale coordinata e organizzata “dal basso” di un dato territorio, in qualsiasi lingua essa si esprima: in una parola autorappresentativa.
In questo senso, un ruolo essenziale lo va a coprire la convergenza tecnologica che si rivela come un’enorme possibilità per la legittimazione e la diffusione del patrimonio stratificato della minoranza sarda e per l’interconnessione delle singole realtà locali[2] e delle stratificate identità culturali al di fuori delle artificiali e spesso inibenti frontiere statali o commerciali[3]. Possibilità che, perché possa verificarsi, necessita di analisi, competenze e senso della responsabilità per evitare che gli unici effetti visibili siano un maggior controllo e diffusione dall’alto e un minor contatto e produzione dal basso.[4]
La Sardignità è certamente una questione imprescindibile dallo spazio.
C’è chi trova assurdo oggi parlare di locale e del passato: ma lo spazio e il tempo esistono, fanno parte della società per quanto proprio la nascita ed evoluzione di un ambiente comunicativo digitale, elettronico, sta contribuendo a modificare e dilatare immensamente spazio e tempo al punto da fargli perdere in parte le caratteristiche cui siamo abituati.
Voler scindere queste componenti è una forzatura che non può avere che risultati generali, poco applicabili ai contesti di per sé particolari.
E’ un’assurdità dire che non si ha radici, forse non le si conosce, forse non le si è mai individuate, ma ogni essere umano, sia esso nomade o sedentario, trae nutrimento da un contesto sempre dinamico, ma che è pur sempre un contesto..
Una persona che nasce, cresce e vive in Sardegna (i così detti residenti, o abitanti ) filtra inevitabilmente il mondo che la circonda attraverso gli occhi di un sardo, poiché i confini della Sardegna trascendono quelli istituzionali e le persone, i contenuti mediatici, gli oggetti che oggi arrivano dal di fuori di questi confini, possono essere apprezzati o criticati, assimilati o respinti, ma per un sardo è impossibile non percepire, se non altro all’inizio, che essi nonsiano “propri”, almeno fino a quando essi non riescono a integrarsi o imporsi in Sardegna. Il discorso è abbastanza complicato, anche perché, a ragion del vero, anche ciò che suona storicamente sardo spesso “non lo è”[5] e molto spesso ciò che inizialmente suona come estraneo, risulta particolarmente affine al “proprio”.
Il punto comunque sta nel sfruttare queste frontiere spaziali “non politiche” per la comunicazione interdipendente con tutti i contesti adiacenti e non, inquadrando i confini marittimi come simbolo di apertura e molteplicità di punti di ingresso e uscita e non come sintomo di chiusura.
Come abbiamo visto nel terzo capitolo la Sardignità è sempre stata legata anche ai tempi. Oggigiorno, da un punto di vista storico, dotare la cultura sarda di dignità significa riconoscere che, anche grazie alle tanto nocive dominazioni, essa è una cultura ricca e variegata. La comprensione delle dinamiche legate ai sistemi di comunicazione è fondamentale per una ricostruzione storica fondata sulla pari dignità delle diverse culture. La trasmissione di un falso passato ha come effetto la costruzione di un presente falsato con conseguenze molto negative sulle pratiche d’autostima e autocritica necessarie per la creazione di un punto di vista autorappresentativo. Solo con un’interiorizzazione della propria storia, ottenuta anche grazie all’interiorizzazione dei media, le persone, intese sia come individui che come membri di realtà collettive potranno sentirsi attori in campo della vita mondiale.
L’era della convergenza tecnologica e dell’oralità di ritorno non è di per sé né esclusiva né inclusiva. Tutti ne facciamo parte in quanto viventi, ma solo chi utilizza gli strumenti e sfrutta i processi da cui essa trae il nome può veramente sentirsi al passo con essa e sfruttarne i vantaggi. Una persona singola che non ha accesso o non accede alle reti integrate e alle nuove tecnologie di comunicazione ,può tranquillamente sentirsi ancora nell’epoca delle comunicazioni di massa, ma della società nel suo complesso non si potrà dire altrettanto.
Una comunità responsabile deve usare bene i mezzi di cui dispone, tutelare il suo spazio, custodire il suo tempo, costruire adeguatamente le proprie leggi.
Una cultura è dignitosa quando i suoi depositari sono coscienti della propria dignità, non conoscono né vergogna né vanto, ma sia umiltà che onore.
Affinché questo avvenga, è importante che la trasmissione, la divulgazione e l’utilizzo siano liberi, senza imposizioni né censure dall’alto. L’autorappresentazione è sempre più frequente in quanto autobiografia di una società. In quanto autobiografica[6] è scavo interiore dei soggetti fatto sulla propria storia, “dominio razionale di sé e assunzione di una umanità più compiuta e razionale, in cui il passionale e l’emotivo si trascrivono sotto il controllo della ragione”, “processo formativo, esperienza di formazione, modellizzazione "rieducativa" di sé”[7].
In quanto collettiva è tesa alla formazione di punti di vista condivisibili più che necessariamente condivisi, comprensibili più che uniformemente compresi.
Ma è anche vero che l’Alto, inteso come risultato di organizzazione e coordinamento, può incentivare la dignità di una cultura, soprattutto dando spazio, lasciando il tempo, diffondendo i mezzi e facilitando l’uso.
Il rappresentare è la forma più antica di comunicazione. Quando l’uomo non sapeva parlare sapeva già rappresentare con gesti, versi e probabilmente anche col bastone (nella migliore delle ipotesi se ne serviva per disegnare nella sabbia).
L’autorappresentazione è venuta contemporaneamente, con le prime interazioni con la diversità
. La nostra epoca chiede sintesi, traduzioni, innovazioni.
I confini, la divisione, la diversità non sono concetti artificiali o negativi, sono i loro limiti ad essere totalmente astratti e spesso erronei, sicuramente svantaggiosi in molti, troppi, casi soprattutto quando considerati come invariabili e immutabili.
Ma l’importante è tener presente che nessuno sta veramente fermo se si considera che la terra gira, e l’importante è che essa continui a girare “nonostante il parere contrario del Tribunale dell’Inquisizione”[8].

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[1] “La tecnologia non è né buona né cattiva. E non è neppure neutrale” Cfr. Kranzberg M.

“The information age: evolution or revolution?”, in Guile B.R. (a cura di), Information technologies and social transformation, National Academy of Engineering, Washington, 1985, citao in IMMOVILLI L, tesi di laurea 2005-2006, op. cit.

[2] Sui rischi e le sfide della globalizzazione e della globalizzazione dal basso si veda Diodato, E., AA.V.V., 2004,op.cit.

[3] Ibidem.

[4] Sull’equità sociale rimessa in gioco dallo sviluppo delle reti e delle nuove tecnologie si veda Van Dijk J., 2002, op.cit.

[5] A questo proposito reputo molto interessante lo studio di Sedda F. sulla bandiera dei sardi, e sulla effettiva estraneità dei “quattro mori” oggi invece considerati emblema della Sardegna non solo politica, ma culturale e calcistica. Cfr. La vera storia della Bandiera dei Sardi, Condaghes, Cagliari,. 2007.

[6] Su tale concetto faccio riferimento a Cambi F., Abitare il Disincanto, UTET Università ed., Torino 2006, (cap.4)

[7] Ibidem, p.61-63. “Mai tappa ultima, finale, ma pur sempre centrale, decisiva. L’autobiografia cambia il soggetto. Lo rimette a fuoco in modo nuovo. Ne sposta il baricentro, l’immagine il senso.”

[8] Masala F. 1995, op.cit., p.112.